venerdì 12 novembre 2010

Mi sento domandare.


<< Dobbiamo ritornare a sentire con le mani >>, mi dice un’amica qualche giorno fa, << perché le cose bisogna capirle con i polpastrelli se vuoi dargli la vita >>.
Letizia Fornasieri, artista milanese, mi di-mostra la stessa cosa.
<< Io non sono un’artista contemporanea. L’arte contemporanea è solo un guazzabuglio di idee illustrate. Io uso ancora pennelli e colori >>. Letizia è precisa. Misura queste parole con fermezza e sembra gustarsele vincente, dopo averle pronunciate, perché sa quel che dice…lei che di significazione ha il pennello tinto.
Incontro Letizia Fornasieri all’incontro padovano “Arte e quotidianità” di cui è ospite e protagonista.
<< Dipingo ad olio quadri a grandezza naturale >> rivela con orgoglio,
<< sono ancora legata ad una dimensione artigianale di arte >>. Perché in fondo, alla pittura “vecchia maniera”, nelle gallerie d’arte contemporanea si permetterebbe di esporre solo nello sgabuzzino di un sottoscala.
Nessuno si chiede più il senso che soggiace alle opere esposte nelle gallerie. Basta che esse abbiano impatto su chi le guarda. Ma.. in chi cerca di capirle, suscitano qualcosa?
Mi sento domandare. E anche Letizia: << Io dipingo oggetti, perché credo che ogni cosa abbia la sua ragion d’essere. Io non faccio altro che ascoltare e dare dignità a ciò che mi circonda. Ogni giorno sono interpellata. Se non ci si chiede il senso che investe tutte le cose, si muore>>.
Si muore.
Se si smette di cercare, si muore.
Ma il senso spesso lo si butta sotto il letto, a impolverare con i problemi ingombranti e le paure disordinate che si piegano su se stesse proteggendosi a vicenda. Poiché esiste il caso e nulla più. Negli anni zero crediamo nelle coincidenze, nelle sfortune impreviste, nella buona stella e nell’occasionalità. Tanto poi quel significato ci troverà, magari all’angolo di un incrocio, con le spalle al muro, aspettando. Ma ad attendere, le membra diventano indolenzite e le spalle si torcono su loro stesse e non c’è più spazio ne per uscire ne per ritornare a se stessi.
<< Non bisogna sottrarsi alla realtà. Io dipingo per rivelare il segreto di ciò che rappresento >>, Letizia spiega presentando un suo quadro raffigurante una sedia ricolma di mele cotogne, una sedia “completa” come dice lei. << La vedete questa sedia? La percepite la sua soddisfazione? Questa sedia è compiuta poiché svolge il suo compito. E allora quando ha raggiunto il suo scopo non è più solo una semplice seggiola. Lei è trono>>.
Ridurre per non soffrire; strizzare, costringere per non voler capire. Per non imparare a capirsi.
Osservare fiaccamente, sazia di semplicità chi si accontenta; chi vede in una sedia solo un posto a sedere e non un posto da occupare. Servirebbero altri occhi. Occhi che si fanno palmi, dita, impronte digitali. Occhi che premono e lasciano il segno nelle cose che toccano con lo sguardo.
Letizia Fornasieri insegna ad andare oltre i riflessi della realtà poiché essi diventano ombre che ricadono su noi stessi come pesi inerti. Quest’artista lo fa ogni giorno, tramite una pittura sanguigna ed un’esegesi del quotidiano logorante e passionale che non può non far riflettere chi ha fame di “rendersi conto”.

lunedì 7 giugno 2010

Lettera anonima n. 2


Ti scrissi questa lettera molto tempo fa. Era il periodo in cui scrivevo moltissime lettere anonime. Ne ho spedita solo una fin d’ora. Quella che spedirò a te domani sarà la seconda.
Quattro mesi fa’ speravo di vederti finalmente felice.
La scorsa settimana ti ho incontrata e lo eri davvero. Ci sei riuscita hai visto ?
Ci sei riuscita….



Oggi, per te.


I tuoi occhi mi ricordano l’inverno. Non quello delle notti ghiacciate in cui si affonda nel piumone, inutilmente alla ricerca di un po’ di calore, ritrovandosi sempre però con le dita dei piedi congelate e una fastidiosa insoddisfazione tra i denti.
Parlo dell’inverno dei riverberi del tramonto sulla neve e dei pomeriggi passati con il naso schiacciato contro la finestra.. in assorta contemplazione dell’ennesimo regalo di Dio; una nevicata il giorno di Natale magari. Quegli inverni in cui tenere fra le mani una calda tazza di thè e sentire pizzicare i polpastrelli dal calore della ceramica è un piacere.
I tuoi occhi mi ricordano la mia sciarpa di lana celeste… la mia preferita, la più preziosa che possiedo. Le tue dita che affusolate attorcigliano le tue bionde ciocche, disegnano nell’aria deliziosi pensieri. I tuoi capelli di grano, che si sciolgono al vento d’estate quando fuori, il tepore della terra si sente sulla pelle, sanno di miele e si sposano con i papaveri dei campi in primavera.
Così ti dovresti svegliare ogni mattino: con un sorriso disteso sulle labbra perché tutta questa Tua bellezza è per te: gli altri ne contemplano la deliziosa confezione ma tu ne percepisci la speciale eccezionalità.
…E un giorno qualcuno di molto fortunato ne assaggerà l’essenza perché tu deciderai di accoglierlo, dapprima con discrezione, poi con sincero trasporto.
Tu essere speciale che vagabondi alla ricerca di un apprezzamento, uno sguardo di desiderio, una parola di conferma, sei creatura perfetta. Tu che divori i tuoi giorni con apprensione, in attesa di quel qualcosa che ti manca.
Perché quel vuoto si fa sentire ad ogni tuo risveglio, comprime il respiro e ti costringe con l’aria, ad inalare le amarezze che ritagliano il tuo cuore di carta in tanti piccoli frammenti sgualciti.
Come riempire tutto quello spazio vuoto? CON COSA riempire l’assenza.
Forse stai cercando la cosa sbagliata, ti affanni nella direzione opposta. Cerchi il problema lontano da te, fuori da te quando forse dovresti RITORNARE a te, riprenderti in mano, abbracciarti, apprezzarti, volerti bene.
Non hai bisogno che di te stessa ora, di riscoprire quel qualcosa che possiedi ma che in questi anni hai accollato alla persona che ti stava accanto. Hai rubato a te stessa la sicurezza, la consapevolezza, l’unicità che hai attribuito ad altri con ingenuità.
Tu vieni prima di tutto..e tutti.
Tu, Tu.
L’amore non tende solo verso un’altra persona : ci nasce dentro e prima di donarlo dobbiamo risparmiarne premurosi anche un po’ per noi.

Ti scrivo questa lettera perché ognuno dovrebbe riceverne una nella vita, disinteressata, sincera: una lettera che arrivi al cuore e lo apra all’inaspettato.
Io credo in te G.
Lo sai che ci riuscirai vero ?

martedì 4 maggio 2010

mi ricordo Beirut...


Il fumetto di Zeina Abirached edito da Becco Giallo profuma di succo di melograno, di lavash, e di samovar.
Già dalla copertina pregusto un tratto corposo la cui spigolosità rievoca le strisce della Satrapi, un'altra nota icona femminile delle graphic novel d'oggi.
Apro il fumetto con delicatezza in modo che non si formi quel solco antiestetico sul dorso del libro.
I personaggi sono bianchi e immersi nel nero di pece delle pagine. Faccio scorrere il dito indice sulla carta in modo che il polpastrello raccolga come carta assorbente i pigmenti acromatici di quel nero asfissiante. Le vignette scure sono opprimenti: c'è un nero invadente che tutto compenetra e riempie. Un nero ridondante troppo carico e opulento. C'è puzza di sgabuzzino chiuso. La pagine robuste, troppo spesse lanciano un' (a)sonorità confusa, mista a cacofonia sorda, quasi impercettibile. Sento voci echeggiare nella Beirut degli anni zero, coperte dal nero.
Urlano le bombe ma Beirut no. Fuga, esodo, rimorso...uno zaino sempre pronto.
I ricordi.
Qualche giorno fa lessi un articolo sull'importanza della lettura. Il giornalista diceva che grazie ai libri e ai fumetti possiamo viaggiare senza muoverci di un millimetro dalla nostra poltrona, conoscere personaggi indimenticabili, immergerci in situazioni surreali.
Leggendo..l' impossibile diventa accessibile: basta volare su aerei di carta immaginari.
Ecco cosa si prova a leggere "Mi ricordo Beirut".

domenica 25 aprile 2010

Adam



"Il pilota impara molte cose dal piccolo principe, sopratutto sull'amore. Mio padre mi ha sempre detto che ero io il piccolo principe. Ma dopo aver conosciuto Adam, ho capito che sono sempre stata io il pilota."

Quando ero piccina mi portavo appresso Il Piccolo Principe costringendolo ad accartocciarsi nella federa di una tasca o nella pancia  di una borsa. Sarà la copertina attraente dai disegni essenziali ma teneri.. O semplicemente sarà la sinfonia di parole aggraziate che piovono ordinate su quelle pagine di carta un po' rigida e piacevole al tatto.
Beh, Adam, il film, è ugualmente raffinato.
Il protagonista, da cui il film prende il nome, è prezioso. Adam non vive su un piccolo pianetino oltre etere, non ha una volpe come amica.
Adam costruisce giocattoli, si dilunga in ostiche disquisizioni di astronomia, mangia esclusivamente pasta al formaggio preconfezionata e non ama stare in mezzo alla gente; o meglio.. non gli riesce.  
Il protagonista del film è sfuggente, ermetico, parla pochissimo e se lo fa centellina parole curiose, mirate e indagatrici che si intrufolano a volte con tenerezza a volte con scomoda invasività nelle persone che gli stanno accanto. Adam è una personalità delicata, fragilissima..una di quelle persone a cui vorresti accarezzare il cuore per farla sentire al sicuro.
Che poi il protagonista sia affetto dalla sindrome di Asperger, beh, è solo una piccola parentesi nella storia.
Tutto nel film è squisitamente tenue: la fotografia rarefatta, i colori pastello delle scene, i dialoghi scanditi da un ritmo cinematografico lento e misurato, un po' come lo stesso protagonista.
Se è da molto che non leggete il libro di Saint-Exupéry e avreste voglia di riprenderlo in mano, passate una piacevole oretta in compagnia di Adam.

sabato 24 aprile 2010

Siamo appesi di spalle al filo del bucato. La molletta non tiene. Il filo cede: è questione di rallentare la caduta.


Sprofondare è ciò che voglio. Metto la testa sul cuscino. Gioco con l’immaginazione. Sarà la forza di gravità, saranno le leggi intransigenti di questo mondo troppo concreto ma non riesco ad annegare nella piuma del materasso. Premo contro la superficie delle coperte ma non si apre un nuovo mondo sotto il mio corpo. Non c’è nulla, niente più che l’evidenza. Ci sbatto contro e fa male.
Allora prendo in mano la fantasia, provo a sognare un sentiero sterrato su cui correre senza tenere i freni premuti ma rimango delusa. A pugni stretti mi picchio le tempie: non riesco a sognare.
Tento di saltare, magari sopra le nuvole si riesce a respirare meglio, magari oltre l’etere l’orizzonte visibile non si arresta in corrispondenza di un solo passo di formica.
Ci provo: ho perso anche la capacità di darmi il giusto slancio.
Cosa fare...

Ho la testa pesante, vuota, sgombra, ma pesante.
Non ho pensieri. Ho la testa pesante. Non ho sogni. Ho la testa pesante.
Ho molto sonno. L’unica cosa che posso fare per ammazzare il tempo è accasciarmi sul letto inerme sperando che il risveglio non avvenga troppo presto: devo prendermi dell’altro tempo ancora.
Quanto durerà? Quanto durerò?
Non mi sento più. Strillo e mi sento distante.
Finirò per vedermi trasparente perché mi sto consumando…Qualcuno alla fine mi laverà via con del sapone e un getto d’acqua e non mi ribellerò, non mi aggrapperò alle pareti della stanza. Non graffierò il pavimento prima di scivolarmene via. Ti guarderò solo per un istante per poi ritirare i miei occhi pieni di vergogna.
E per me non ci sarà un’altra volta…..Ed è giusto che sia così.

Io voglio cadere


Finita la lezione all’università mi infilo subito le cuffie dell’mp3 nelle orecchie.
A testa bassa, ben attenta a non incrociare lo sguardo di nessun compagno di corso, mi arrampico a passo veloce su per la breve salita che si dilunga dalla porta dell’aula fino al cancello principale.
Ce l’ho fatta anche oggi.

“Qui a Los Angeles stiamo tutti dietro vetro e metallo: il contatto fisico ci manca a tal punto che ci scontriamo con gli altri solo per sentirne la presenza.” -Crash-
Il mio vetro e il mio metallo sono la mia pelle e quello che si sta cristallizzando appena più sotto.
Mi sento costretta a racimolare la vita degli altri.
Bevo dai loro occhi la gioia che è pane per il loro cuore affamato. Mi prendo il dolore delle loro perdite; i rimpianti del loro passato. Mi entusiasmo per le preoccupazioni dei loro futuri e i piani deliziosamente stillati dai loro sogni.
Non so quanto durerà ancora questa situazione. Veramente.
Oggi, uscita dall’aula, ho riempito le mie orecchie di una musica assordante, dirompente per non sentir più nulla, per non sentirmi; perché oggi ho percepito un tonfo sordo, che ridondante ha riempito il mio corpo di un rimbombo straziante.
Questo gemito così umano mi ha ricordato che ci sono ancora.
Ci sei ancora Martina.
Allora ho cominciato a girare a vuoto per la città. Volevo perdermi, per poi ritrovarmi, per avere l’illusione che tra un vicolo nascosto e un antro segreto avrei scovato il premio più grande di questa rocambolesca caccia al tesoro che è la vita.
Vorrei trovarmi . Vorrei esserci.
Ma Padova è troppo mia, ne ho assorbito la nebbia a fondo, fino a tossire. Padova mi si è impressa nella carne. Padova è fuori e dentro, è sotto la pelle, è un nylon che opprime e stringe.
Padova, l’università, i ricordi delle superiori sono in fondo la stessa cosa: opprimenti ma necessari per questa mia sopravvivenza.
Ma se non volessi più arrancare? E se avessi deciso che mi sono trascinata il mio presente così tanto da sbucciarmi le ginocchia e sanguinare ? Non sarebbe più questione di lasciarsi vivere dalla vita degli altri. Finalmente non dovrei parlare mai più di sopravvivenza. L’università, Padova, e i ricordi non sarebbero più requisiti essenziali ma semplici attributi facoltativi.
Beh oggi abolisco il condizionale e decido per un presente vivido.

Quella volta avevo ragione.
C’ho pensato sta sera mentre camminavo protetta dall’alone di una luna luminosa che pietosamente mi ha coperto con il suo manto argentato. Non ho mai voluto fare l’università perché non ne sentivo l’esigenza. Terminata la maturità diamo per scontato il fatto che sia normale procedere gli studi ma cazzo, di normale in questo ragionamento non c’è proprio niente.
Quel giorno dissi che me ne sarei andata perché il mondo è PER me, lo so.
C’è così tanto lì fuori che il cuore potrebbe franare dalla gioia al solo pensiero.
C’è così troppo tutt’intorno che non avrei dovuto farmi convincere a restare.
dissi quel giorno.
E invece ora sono qui a mettere un po’ di scotch al mio piccolo cuore di carta per tenerlo integro, per evitare che si screpoli alle intemperie delle avversità.
Dovevo deludervi, dovevo osare ma le aspettative nei miei confronti erano così tante che ho ceduto. Ho dovuto adattarmi a queste e diventarne vittima.
Ucciderò il mio carnefice, lo ucciderò; ma dovendolo fare ucciderò me stessa. E’ colpa mia.
Di fronte alla possibilità di sbagliare andandomene incontro alla possibilità (oh compianta possibilità, di errore o salvezza chi lo saprà mai ora) ho deciso di procedere su un sentiero già tracciato. Mi sono fatta scegliere da questo futuro che non posso più credere come MIO.
Non è mio questo futuro.

“Il segreto del procedere sta nel non pensare troppo” - spiegava Zarathustra- “Bastano un timido dubbio un indugio e quella voragine è pronta a fagocitarci. La vita, come quel filo, va affrontata a testa eretta, senza mai guardare giù, senza mai guardare troppo dentro alle cose.” Zarathustra così trascorreva gran parte della sua vita vigile in bilico su di un filo. Nietzsche


Ma Zarathustra un giorno cadde.
In fondo, tutte le cose che egli disse erano giuste, ma anche ai più saggi e ai più integri, prima o poi, almeno una volta nella vita, capita di perdere l'equilibrio, di perdersi un poco. A qualcuno capita da seduto e allora è solo un piccolo panico, nulla di grave insomma.
A qualcuno invece capita sulla fune lassù in alto..
E in questo caso non resta altro che abbandonarsi all'oblio della possibilità.

Io voglio cadere.

Il piacere di non tacere

Mi sono sempre state antipatiche le parole.
Così sfuggenti, incontrollabili ma, così terribilmente attraenti.
Io e le parole abbiamo un legame sanguigno, passionale ma innegabilmente conflittuale.
Filippo Timi, l’attore, dice: ” Non mi fido delle parole, ci balbetto sopra !”.

E’ sempre stato un problema balbettare. Per me.
Un disturbo che forse ha modellato persino il mio carattere.
Questa riservatezza impacciata che mi caratterizza, mista alla più ermetica timidezza, è nata in seguito alla mia difficoltà comunicativa. E se comunicare è per ogni essere umano una necessità oltre che sociale, prima di tutto biologica, la mia incapacità è sempre stata uno svantaggio.
Tutto ciò che volevo dire è spesso rimasto a sedimentare fra i detriti di espressioni addormentate.
Ricordo ancora quando da bambina non chiamavo mai al telefono i miei amici perché non riuscivo a proferir parola. In quei momenti attaccata alla cornetta, si liberava un silenzio imbarazzante di parole sottointese, volute ma incastrate in gola e nel cuore. Ed era sempre un insanabile insoddisfazione.
Ricordo le sedute cliniche dal logopedista, fra quelle pareti disinfettate dove le macchie della devianza rimanevano però indelebili. Ricordo un’afasia opprimente: un ricordo che sanguina pensieri rinunciati, abbandonati alla loro inconsistenza.
Io e le parole non siamo mai andate d’accordo.
Non abbiamo mai trovato un compromesso. A 9 anni, lo ricordo vividamente, decisi di farla finita con queste mie ingestibili nemiche. Non parlai per un’intera settimana.
Non andai a scuola. Con la bocca sigillata, imprigionai le parole in bocca ad una ad una.
Con mia grande soddisfazione, morirono tutte asfissiate.
Avevo vinto io.
Alle medie durante un’interrogazione per cui avevo studiato moltissimo, non riuscii a spiaccicare parola. Con la lingua immobilizzata, i muscoli mascellari rigidissimi e la bocca contorta in una smorfia sub umana, me ne stavo anchilosata di fronte alla cattedra. Muta.
Le avevo in testa tutte, le parole.
Peccato che esse non vollero saperne di farsi vive quel giorno.
“Si vergognano pure loro”- pensai.
Nonostante ciò, ogni giorno mi scopro sempre più affamata di parole. E’ una fame vorace sempre tesa all’ingordigia. Ma dato il profondo sospetto riposto in esse, ne cristallizzo l’incertezza imprimendole nell’ immobilità della carta.
Le parole sono accattivanti, irresistibili. E’ impossibile riuscire ad evincere il loro fascino.
Così, giorno dopo giorno, il piacere di scrivere, di oggettivare il continuum della “langue” (come direbbe qualsiasi semiotico) è diventato un’urgenza.
“Voglio scrivere quando sarò grande”- mi dicevo da piccola. “ E se diventerò una scrittrice prestigiosa potrò permettermi di esprimermi solo attraverso i miei libri e articoli. Così non darò più alle parole la soddisfazione di prendersi gioco di me con i loro mezzucci molesti. Potrò evitare di parlare!”- mi rincuoravo.
Oggi come oggi invece non penso a questo mio disturbo come un handicap inibitorio. Anzi.
Penso di essere piuttosto fortunata. Speciale.
Sono tra quell’ 1,3% della popolazione a soffrire di questa dislfuenza verbale e per di più, essendo una donna, sono a maggior ragione un “ esemplare rarissimo” poiché solitamente la balbuzie colpisce quasi esclusivamente gli individui di sesso maschile. Ma non voglio considerare il fenomeno solo statisticamente.
La balbuzie è un insolito dono; una mia personale qualità.
Questo disordine linguistico non ha fatto altro che provocarmi, a tal punto, da spingermi a leggere sempre di più, scrivere sempre di più e trovare in modo cavilloso le parole più adatte a dire con il minor sforzo fisico possibile, le migliori cose .
(Quando parlo per evitare di tartagliare impiego uno sforzo immane perché contraggo anche i muscoli più infimi)
Mi sento riconoscente verso la balbuzie.
Perché? Perché mi mette continuamente in discussione, mi spinge ad essere ostinata, perché mi fa apprezzare il gusto unico di ogni conversazione, anche la più insignificante, perché mi fa amare il delizioso piacere di pronunciare, scandire perfettamente, ogni singola parola. Ogni parola ha il proprio personalissimo sapore. E io, penso di poterne cogliere l’esclusività.
Cercare di non farfugliare è un ‘impresa titanica. Come si cerca di vincere le ripetizioni involontarie, le esitazioni e i prolungamenti di suoni, sillabe e parole si tenta anche di piegare al proprio controllo, per quanto possibile, le avversità del quotidiano.
E poi, diciamocelo. La balbuzie è una gran figata:
Filippo Timi è uno degli attori teatrali e di cinema più apprezzati in questo momento.
Con il suo ultimo film “La doppia ora”, presentato quest’estate al festival del cinema di Venezia, ha accolto le ovazioni di una platea in estasi per la sua interpretazione. E non parliamo delle sue performance in “Come dio comanda”; “Vincere”; “Saturno contro”.
Filippo Timi ha vinto molteplici premi. E vorrei aggiungere, CHE premi.
Tra il 2005-2009 Timi vince il premio come miglior interprete d’essai dalla Federazione Italiana Cinema d’Essai; un premio dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro; e infine il premio come miglior attore italiano under 30 .
Filippo Timi balbetta.

E per fortuna che ci siamo noi ba-ba-baaalbuzienti allora.

lettera:lezioso profumo di rifiuto per la mittente anonima

Saranno le tue labbra di delizioso contorno.
Saranno i tuoi denti che come la neve frizzante esultano, brillando, al delicato tocco del sole.
Saranno i tuoi occhi di nocciola perfettamente disposti sul tuo viso di marmo: l’uno armonia dell’altro, eterni complici di una bellezza che si consuma compiaciuta agli sguardi di chi ti contempla.
Sarà forse il tuo fiato zuccheroso che rinverdisce sentimenti di miele a guidare le mie dita su questa tastiera, ad ordinare i miei pensieri.
O forse no.
Forse è la tua bocca mai sfiorata nemmeno con la più desiderosa delle carezze, forse sono i tuoi occhi sempre troppo immobili, eccessivamente lontani per essere raggiunti lì dove il mio e il tuo tempo non si incontreranno mai. Lì in quello spazio “dell’eterea possibilità” che ti sei creato per sfuggire alla responsabilità dei tuoi stessi sogni.

Dimmi; dimmi ora quanto hai paura…di te.

Stai prendendo tempo, voracemente. Ogni giorno ti vede spettatore di una vita in cui il protagonista divora correndo la strada della fuga. Ti chiedi cosa veramente vuoi da te stesso. Ma, rimandi la risposta alla mattina seguente.
Tutti sopravviviamo un po’…ma tu non sembri volerti ribellare alle giornate che ti vivono,sottomettendoti. Tu creatura errante, che vagabondi tra le tue infinite arrese, percorsi deviati e ambizioni lasciate cadere in uno stagno opaco. Tu prezioso essere dagli occhi torbidi...
Scosta le tende.
Io aspetto, credo…te; la fioritura dei tuoi sogni, la realizzazione dei tuoi progetti, la maturazione delle tue fumose chimere.
Io attendo perché Quel giorno.. magari.. i tuoi occhi hanno chiesto aiuto.

M.

Codardia trasparente bianco pallido.


“ Sei troppo silenziosa Martina”. “ Perché non parla mai sua figlia?”. “ Svegliati, cosa ne pensi, sai parlare?”. “Ho notato che non parli molto”. Hai paura di parlare eh?”.
Si.
Il silenzio non paga ma..mi appaga.
Mi aggiro per i corridoi dell’università. Mani in tasca. Le scarpe non devono strisciare troppo. La gente se ne accorge di chi trascina i piedi.. ma non presta attenzione a ciò che vuole rimanere coperto dal rumore ruvido del cuoio che arrendevole, si lacera ai sentieri sghembi della vita.
In fondo.. il rumore vero ce l’abbiamo dentro.
Mi porto appresso le scarpe, i piedi, il rumore, disegnando un ritmo moderato, quasi assente, sul pavimento. Cammino velocemente ma sto ben attenta a poggiare con precisione prima il tallone e poi di conseguenza la punta che esulta al contatto con il suolo, ridandomi lo slancio per il passo successivo. C’è così tanto rumore in questi corridoi, camuffato.
Io me ne sto’ in silenzio. Quasi perennemente. Ad ascoltare.
Tonfi sordi. Ticchettii sfuggenti. Boati. Pause distese. Pause frammentarie. Arpeggi trascinati, dentro di noi.
Il silenzio l’ho sempre immaginato bianco, della stessa consistenza del cartongesso. Protezione a basso costo, grezza sicurezza silente, cotone idrofilo insonorizzante. Ho il cuore colmo di questo mare di latte.
Non mi sento mai al sicuro..con gli altri. E allora mi rimbocco le orecchie, le palpebre, con il silenzio. Mi riprendo in mano. E mi sento protetta. Ri-assaporo il mio muto respiro. Lo tengo un po’ con me. Osservo il petto e l’addome sollevarsi danzanti. Ed è tutto così familiare e mio che mi commuovo.
Cosa rimane di me alla fine ? nel turbinio di voci, tra lo sfrecciare sconsiderato delle parole, il vociare dei gesti cristallizzati e le urla degli occhi. Mi rimane un silenzio d’ovatta centellinato e preziosissimo. Qualcosa di ancora ingenuo, trasparente bianco pallido. Mio.
E’ facile perdersi, fra il rumore degli altri... che a volte.. bisogna ritornare a se stessi.
Sono 19 anni che ritorno alle mie pareti insonorizzate di carne a rimangiarmi le mie stesse grida, a sfamarmi con soliloqui patetici; che ormai di silenzio son diventata sorda. Paura degli altri. Codardia muta.
La paura di perdersi negli altri l’hai mai provata? Io ci penso tutti i giorni.
Ma il silenzio questo no non paga mai, ma … mi appaga…con codarda vendetta.