sabato 24 aprile 2010

Il piacere di non tacere

Mi sono sempre state antipatiche le parole.
Così sfuggenti, incontrollabili ma, così terribilmente attraenti.
Io e le parole abbiamo un legame sanguigno, passionale ma innegabilmente conflittuale.
Filippo Timi, l’attore, dice: ” Non mi fido delle parole, ci balbetto sopra !”.

E’ sempre stato un problema balbettare. Per me.
Un disturbo che forse ha modellato persino il mio carattere.
Questa riservatezza impacciata che mi caratterizza, mista alla più ermetica timidezza, è nata in seguito alla mia difficoltà comunicativa. E se comunicare è per ogni essere umano una necessità oltre che sociale, prima di tutto biologica, la mia incapacità è sempre stata uno svantaggio.
Tutto ciò che volevo dire è spesso rimasto a sedimentare fra i detriti di espressioni addormentate.
Ricordo ancora quando da bambina non chiamavo mai al telefono i miei amici perché non riuscivo a proferir parola. In quei momenti attaccata alla cornetta, si liberava un silenzio imbarazzante di parole sottointese, volute ma incastrate in gola e nel cuore. Ed era sempre un insanabile insoddisfazione.
Ricordo le sedute cliniche dal logopedista, fra quelle pareti disinfettate dove le macchie della devianza rimanevano però indelebili. Ricordo un’afasia opprimente: un ricordo che sanguina pensieri rinunciati, abbandonati alla loro inconsistenza.
Io e le parole non siamo mai andate d’accordo.
Non abbiamo mai trovato un compromesso. A 9 anni, lo ricordo vividamente, decisi di farla finita con queste mie ingestibili nemiche. Non parlai per un’intera settimana.
Non andai a scuola. Con la bocca sigillata, imprigionai le parole in bocca ad una ad una.
Con mia grande soddisfazione, morirono tutte asfissiate.
Avevo vinto io.
Alle medie durante un’interrogazione per cui avevo studiato moltissimo, non riuscii a spiaccicare parola. Con la lingua immobilizzata, i muscoli mascellari rigidissimi e la bocca contorta in una smorfia sub umana, me ne stavo anchilosata di fronte alla cattedra. Muta.
Le avevo in testa tutte, le parole.
Peccato che esse non vollero saperne di farsi vive quel giorno.
“Si vergognano pure loro”- pensai.
Nonostante ciò, ogni giorno mi scopro sempre più affamata di parole. E’ una fame vorace sempre tesa all’ingordigia. Ma dato il profondo sospetto riposto in esse, ne cristallizzo l’incertezza imprimendole nell’ immobilità della carta.
Le parole sono accattivanti, irresistibili. E’ impossibile riuscire ad evincere il loro fascino.
Così, giorno dopo giorno, il piacere di scrivere, di oggettivare il continuum della “langue” (come direbbe qualsiasi semiotico) è diventato un’urgenza.
“Voglio scrivere quando sarò grande”- mi dicevo da piccola. “ E se diventerò una scrittrice prestigiosa potrò permettermi di esprimermi solo attraverso i miei libri e articoli. Così non darò più alle parole la soddisfazione di prendersi gioco di me con i loro mezzucci molesti. Potrò evitare di parlare!”- mi rincuoravo.
Oggi come oggi invece non penso a questo mio disturbo come un handicap inibitorio. Anzi.
Penso di essere piuttosto fortunata. Speciale.
Sono tra quell’ 1,3% della popolazione a soffrire di questa dislfuenza verbale e per di più, essendo una donna, sono a maggior ragione un “ esemplare rarissimo” poiché solitamente la balbuzie colpisce quasi esclusivamente gli individui di sesso maschile. Ma non voglio considerare il fenomeno solo statisticamente.
La balbuzie è un insolito dono; una mia personale qualità.
Questo disordine linguistico non ha fatto altro che provocarmi, a tal punto, da spingermi a leggere sempre di più, scrivere sempre di più e trovare in modo cavilloso le parole più adatte a dire con il minor sforzo fisico possibile, le migliori cose .
(Quando parlo per evitare di tartagliare impiego uno sforzo immane perché contraggo anche i muscoli più infimi)
Mi sento riconoscente verso la balbuzie.
Perché? Perché mi mette continuamente in discussione, mi spinge ad essere ostinata, perché mi fa apprezzare il gusto unico di ogni conversazione, anche la più insignificante, perché mi fa amare il delizioso piacere di pronunciare, scandire perfettamente, ogni singola parola. Ogni parola ha il proprio personalissimo sapore. E io, penso di poterne cogliere l’esclusività.
Cercare di non farfugliare è un ‘impresa titanica. Come si cerca di vincere le ripetizioni involontarie, le esitazioni e i prolungamenti di suoni, sillabe e parole si tenta anche di piegare al proprio controllo, per quanto possibile, le avversità del quotidiano.
E poi, diciamocelo. La balbuzie è una gran figata:
Filippo Timi è uno degli attori teatrali e di cinema più apprezzati in questo momento.
Con il suo ultimo film “La doppia ora”, presentato quest’estate al festival del cinema di Venezia, ha accolto le ovazioni di una platea in estasi per la sua interpretazione. E non parliamo delle sue performance in “Come dio comanda”; “Vincere”; “Saturno contro”.
Filippo Timi ha vinto molteplici premi. E vorrei aggiungere, CHE premi.
Tra il 2005-2009 Timi vince il premio come miglior interprete d’essai dalla Federazione Italiana Cinema d’Essai; un premio dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro; e infine il premio come miglior attore italiano under 30 .
Filippo Timi balbetta.

E per fortuna che ci siamo noi ba-ba-baaalbuzienti allora.

1 commento:

  1. Mi hai fatto veramente sorridere e riflettere con il piacere di non piacere; è la prima volta che penso alla balbuzie come un dono, di cui andare fiero ed addirittura esserne riconoscente!! Complimenti davvero.

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